Aborto, omicidio, infanticidio
L’aborto è l’uccisione di un essere umano innocente e indifeso. Oggi si tende ad ignorare questo dato di fatto, tant’è vero che si è intrapresa la via per la legittimazione dell’infanticidio.
Cominciamo dall’inizio: l’embrione umano non è un semplice “grumo di cellule”.
Fin dal momento della fecondazione - e prima ancora dell’impianto in utero - è un organismo autonomo in grado di autodeterminarsi.
Gli scienziati sono in grado di coltivare “grumi di cellule”, per esempio tessuti: ma le cellule che in questo caso si moltiplicano sono e restano sempre cellule della pelle. Lo zigote - che è l’embrione al primissimo stadio - invece, nel moltiplicare la cellula da cui è composto provvede anche a differenziarne lo sviluppo: alcune saranno deputate a formare il sistema neurale, altre il sistema scheletrico, circolatorio, e così via.
Non solo: quel minuscolo “grumo di cellule” già dialoga con l’organismo materno: per esempio gli chiede di fargli strada tra i villi che cospargono le tube di Falloppio in modo da agevolargli il cammino verso l’impianto in utero. Altro messaggio - fondamentale - che lancia alla mamma: gli segnala che è un soggetto “amico” e non deve essere aggredito ed espulso dagli anticorpi materni (che non riconoscono come “proprio” il patrimonio genetico del padre del concepito).
Chi volesse approfondire sui sacri testi di embriologia, troverebbe la conferma di quanto sin qui esposto in modo molto semplice e divulgativo, tanto per intenderci tra non “addetti ai lavori”. Nei testi scientifici non si trova alcuna soluzione di continuità tra la morula che prima era zigote e poi diviene blastocisti, l’embrione, il feto e il bambino. Si tratta sempre lo stesso individuo, con il suo proprio, unico e irripetibile patrimonio genetico. Lo stesso individuo che sarà poi adolescente, adulto e anziano: cambiano le dimensioni, le funzionalità, la capacità di procurarsi cibo da sé. Lo zigote unicellulare di 0,1 mm di diametro circa, il feto in ogni stadio della sua progressiva maturazione, il neonato medio di 3,500 kg di peso per 50 cm di lunghezza, l’adulto di 70 kg e 175 cm e persino il malato terminale sceso a 35 kg di peso, tutto pelle e ossa, tutti sono lo stesso essere umano la cui vita non può essere nella disponibilità degli altri esseri umani, nemmeno in quella dei suoi cari, neanche in quella di sua madre. Altrimenti a chi si potrà o dovrà dare il potere di decidere chi è degno di vivere e di morire?
Le operazioni lessicali, degne della miglior neolingua orwelliana, che parlano di un vago “prodotto del concepimento”, e la propaganda ideologica che - anche a livello di organismi internazionali - è andata a distinguere tra momento del concepimento e momento dell’impianto per definire l’inizio della gravidanza, hanno fatto un grosso favore alle multinazionali farmaceutiche che vendono le varie “pillole del giorno dopo”. Ma la propaganda e l’ideologia non servono a cambiare il dato di fatto reale e oggettivo: dal momento in cui l’ovulo e lo spermatozoo si fondono, nasce un nuovo individuo appartenente alla specie homo sapiens, diverso dal padre e dalla madre. Certamente si tratta di un essere fragile, bisognoso di protezione, incapace di procurarsi il cibo da sé. Ma in questo non è troppo diverso da un neonato o da un bambino piccolo, o da una persona gravemente malata o altrimenti handicappata.
Sono, infatti, coerenti nella loro cinica abiezione, quei filosofi come Mary Ann Warren (1946 - 2010), professoressa alla San Francisco State University, quando scrive che né l’aborto, né l’uccisione di un neonato sono forme di omicidio. [“It remains true that, on my view, neither abortion nor the killing of newborns is obviously a form of murder”, tratto da “On the Moral and Legal Status of Abortion” in Biomedical Ethics, 4th ed., T.A. Mappes and D DeGrazia, eds (New York: McGraw-Hill, Inc., 1996)].
Sono coerenti i due bioeticisti italiani, Giubilini e Minerva, che hanno pubblicato un paio di anni fa sul Journal of Medical Ethics un articolo su quello che hanno definito “aborto post-nascita”: il fatto di essere “umani” non attribuisce di per sé il diritto alla vita. Sarebbe piuttosto l’essere “persona” che conferirebbe questo diritto. Sarebbe persona solo l’individuo capace di attribuire un qualche valore alla sua esistenza. Quindi l’essere persona dipende dal possesso di autocoscienza. Il momento in cui ciò avviene deve essere deciso da psichiatri e psicologi. Ma fino a quel momento la madre (e forse anche il padre) può disporre a suo piacere della vita e della morte del figlio, sia nel grembo che dopo che è nato.
Del resto, quando l’aborto si pratica a gravidanza avanzata, spesso i bambini sopravvivono: vengono uccisi o lasciati morire tra i rifiuti molto più frequentemente di quanto si possa pensare.
La cronaca giudiziaria, poi, ci mostra un altro dato molto inquietante: di fatto è sempre più comune l‘assoluzione delle madri che commettono infanticidio.
Recentemente, una donna che ha annegato il suo bambino appena nato a Kamloops in British Columbia (Canada) è stata condannata – se così si può dire – a solo due anni di libertà vigilata. Il giudice ha tenuto in considerazione che il figlio era frutto di un rapporto sessuale non voluto durante una festa in cui qualcuno si è approfittato della giovane che si era ubriacata pesantemente. Dopo il parto – in casa – e l’annegamento, perché quella mattina doveva sostenere un esame all’università, la donna ha messo il corpicino in una scatola, la scatola in uno zaino e lo zaino nel bagagliaio della sua auto, con l’intenzione di seppellirlo nella sua città natale di Lillooet. Ma tre settimane più tardi ha prestato l’auto ad un amico che è stato coinvolto in una collisione e il cadaverino è stato scoperto dalla polizia.
Qualche tempo fa c’è stato un caso analogo, sempre in Canada: se la legge permette l’aborto, disse il giudice, perché punire l’infanticidio?
Tanto che quando lo Stato dell’Alberta ha chiesto alla Corte Suprema canadese di ridefinire più severamente l’uccisione dei neonati, le femministe e i soliti radicali libertari sono insorti con le stesse scuse usate quarant’anni fa per giustificare l’aborto quando non era legale: i diritti delle donne, la punizione è già nell’aver compiuto il gesto estremo costrette dalla necessità, ecc. ecc. Del resto la giovane mamma omicida di Kamloops sembrava sinceramente pentita. Ma – moralmente – se è convinta che l’aborto (che in Canada è libero fino al nono mese, quindi è socialmente normalizzato) è accettabile, perché doveva respingere l’idea di infanticidio di un bambino appena nato?